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8.25.2011

Jostein Gaarder - La ragazza delle arance

Recensire un libro come questo non è una cosa affatto facile, perché tocca un tema universale, uno di quei temi che necessariamente si prestano ad interpretazioni diverse. Anzi, oserei dire che ognuno di noi ne ha una visione diversa, anche coloro che si conformano a dogmi religiosi che presentano una spiegazione ben definita, perché a parte l'accettazione di principi generali tutti gli danno un tocco personale: in fondo non esistono al mondo due persone uguali tra loro. Cos'è la vita? Questo è il punto. Una domanda formata da tre parole la cui estensione va oltre i confini dello spazio e del tempo; ed è di questo che Jan Olav vuole parlare, di quello che per lui ha rappresentato la vita. Lo fa in una lettera, indirizzata ad un futuro ragazzo, un futuro uomo brillante e capace di sognare che non conoscerà mai, perché la morte sta venendo a prenderlo, e lo fa attraverso una storia, la storia della "Ragazza delle arance": quell'uomo che verrà è suo figlio. Quando Georg può finalmente accarezzare quei fogli di carta così preziosi, ed insieme ad essi la speranza di conoscere finalmente davvero quel padre mai suo, ha 15 anni. La lettera è stata ritrovata dalla nonna nella fodera di in un passeggino rosso appartenuto a Georg bambino, e che Jan Olav, prima di morire, aveva desiderato venisse tenuto, contando che prima o poi qualcuno avrebbe capito quale tesoro contenesse. Quando gli viene consegnata, Georg sale in camera sua, chiude a chiave, apre la busta e comincia a leggere la lettera. La storia della Ragazza delle arance è appassionante, è dolce, è misteriosa; è bello leggere di come il padre si definisce impacciato con le ragazze, e in particolare con lei. Sin dal primo incontro su un tram di Oslo, dove lo sguardo si posò su quella bellissima ragazza che, con in braccio un enorme sacchetto di arance dal colore brillante, lo ricambia con un sorriso. Da quella volta la ragazza entra nei suoi pensieri, diventa motivo di felicità e paura, quella di non rivederla mai più, di non vederla mai parte della sua vita. Jan Olav fantastica sull'identità di quella misteriosa dea delle arance, tanto da dargliene ben più di una: dalla maestra d'asilo a ragazza madre sposata con un insopportabile studente di Economia Aziendale. La cercherà ovunque, anche oltre i confini della Norvegia, anche a costo di infrangere le regole di quella favola. Perché, tornando sui nostri passi, è questo che Jan Olav crede sia la vita, una favola, un sogno, con delle regole ben precise che accettiamo di rispettare nel momento stesso in cui veniamo al mondo. L'elemento che rende veramente riflessiva la lettura di questo libro fantastico, è la scelta dell'ottica attraverso cui affrontare il tema: quella di un uomo che sa di dover morire, che deve per forza tirare le somme a un'età in cui si è totalmente lucidi e non si può fare a meno di pensare; quella di un medico che pensa che neanche la scienza possa trovare le risposte ad un mistero così impossibile, anzi non deve; ma soprattutto l'ottica è quella di un sognatore che è stato tale per tutta la vita, che alza gli occhi al cielo tutte le notti e cerca una speranza, lì, nell'infinito. Ed è Georg stesso che ci racconta tutto questo, scrivendo "a quattro mani" con il padre, in un bellissimo esempio di libro nel libro che voglio riassumere in una frase di Jan: "Così mi immagino per assurdo possano andare le cose: improvvisamente Newton si rese conto che esiste una gravitazione universale. Contemporaneamente a Darwin passò per la testa che su questo pianeta ha avuto luogo un'evoluzione. [...] Ma allora si può anche pensare che un giorno - e che giorno Georg! -, un giorno, qualche spirito pensante, in un attimo di lucida chiarezza, arriverà a risolvere il mistero stesso dell'universo. Immagino che un giorno, all'improvviso, qualcosa di simile possa accadere." Forse questo è la vita, questo siamo noi, di questo è composto l'universo: scintille.

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